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Il piacere degli occhi

~ La vita non è una tragedia in primo piano, ma una commedia in campo lungo

Il piacere degli occhi

Archivi Mensili: aprile 2013

Il terzo uomo

19 venerdì Apr 2013

Posted by MonsieurVerdoux in Capolavori

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alida valli, carol reed, joseph cotten, orson welles

Il terzo uomo (Gran Bretagna, 1949) di Carol Reed                          Interpreti: Joseph Cotten, Orson Welles, Alida Valli, Trevor Howard, Bernard Lee

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E’ paradossale che il personaggio cui si associ maggiormente il volto di Orson Welles faccia parte di un film non diretto dallo stesso Welles. Harry Lime, un cinico trafficante di penicillina che si finge morto per sfuggire alla polizia, è la figura intorno a cui ruota Il terzo uomo, pellicola cult di Carol Reed: un noir di grande atmosfera, ambientato in una Vienna spettrale, affascinante, devastata dalle bombe della seconda guerra mondiale, e popolata di criminali, zingari, militari e doppiogiochisti. Il film, basato su una sceneggiatura di Graham Green (sulla cui base poi lo stesso Green scriverà anche un romanzo), ha la sua forza proprio nell’ambientazione, nell’atmosfera di mistero che avvolge la figura di Lime, sulla cui morte il suo amico di infanzia Holly Martins, (interpretato da Joseph Cotten) prova ad indagare, andando però a sbattere contro un muro di reticenza, misteri e menzogne; e questo senso di “spaesamento” del protagonista (accentuato dal fatto che nella Vienna-post guerra mondiale si parlano almeno quattro lingue) si trasmette direttamente allo spettatore.

Il terzo uomo è un film appassionante, dalla trama intrigante, oltre che bellissimo dal punto di vista visivo e con alcune sequenze che sono divenute, col tempo, cult: la prima apparizione di Welles (con quel sorriso sornione illuminato dalla luce di una finestra nella notte di Vienna), la scena sulla ruota panoramica (in cui Lime pronuncia la famosa frase sugli orologi a cucù, inserita all’ultimo momento nella sceneggiatura proprio da Welles), lo splendido finale ambientato nelle fogne, in cui Lime si perde in un labirinto di gallerie senza uscita e (per lui) senza speranza.

Alcuni dicono che Welles abbia diretto, non accreditato, diversi rulli del film: e le riprese sghembe, la profondità di campo sempre molto accentuata, l’attenzione ad ogni minimo particolare dell’inquadratura, potrebbero lasciarlo pensare; io credo piuttosto che Reed si sia semplicemente lasciato influenzare dalla presenza sul set del regista di Quarto Potere (cosa inevitabile del resto, se si considerano il carisma e la personalità “titanica” e accentatrice di Welles) e abbia in qualche modo fatto suo, per l’occasione, lo stile di quest’ultimo.

E il risultato, diciamocelo chiaramente, è stato un autentico capolavoro.

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Il prestanome

16 martedì Apr 2013

Posted by MonsieurVerdoux in Cult

≈ 8 commenti

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danny aiello, maccartismo, martin ritt, woody allen, zero mostel

Il prestanome (USA – 1976) di Martin Ritt                                          Interpreti: Woody Allen, Zero Mostel, Herschel Bernardi, Michael Murphy, Danny Aiello

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Delle tante pellicole che hanno raccontato la vergognosa piaga del maccartismo, Il prestanome è senza dubbio una delle più lucide e dirette; fosse anche solo per la presenza di tanti personaggi che a loro tempo furono inseriti nelle liste nere del senatore McCarthy: il regista Martin Ritt, lo sceneggiatore Walter Bernstein, l’attore Zero Mostel, qui in una delle sue interpretazioni più toccanti.

 Il prestanome è un film solido e rigoroso sia formalmente che nel suo voler essere una obiettiva ma spietata denuncia della piaga che negli anni ’50 costrinse diversi personaggi del mondo del cinema (Chaplin su tutti) ad abbandonare gli Stati Uniti; e non ci si lasci fuorviare dalla presenza di Woody Allen: per la prima (ed unica) volta nella sua carriera, Allen interpreta un ruolo drammatico, senza abbandonare le nevrosi e l’ironia tipiche dei suoi personaggi certamente, ma in qualche modo “contenendole” in un’interpretazione molto più compassata, l’ideale per tratteggiare un personaggio viscido e ambiguo come Howard Prince. Ciò è dovuto probabilmente al fatto che alla regia non c’è lo stesso Allen, o comunque un regista comico come poteva essere Herbert Ross (che lo aveva diretto in Provaci ancora, Sam) ma il ben più “quadrato”  e rigoroso Martin Ritt.

Discorso a parte merita il finale, uno dei più belli che il cinema moderno ricordi: durante un interrogatorio in merito alla sua attività da prestanome, Howard, che non si era mai realmente interessato alla causa dei perseguitati dal maccartismo (che aveva aiutato solo per il proprio tornaconto) ha uno scatto d’orgoglio: e in quel guizzo, in quell’unico (ma decisivo) momento di dignità, riscatta i peccati di una stagione da cancellare e forse riconcilia definitivamente il mondo del cinema con uno dei suoi momenti più bui e vergognosi.

Welles e Kafka: Il Processo (ovvero: anche Truffaut qualche volta sbaglia)

12 venerdì Apr 2013

Posted by MonsieurVerdoux in Gioiellini sottovalutati

≈ 4 commenti

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akim tamiroff, anthony perkins, jeanne moreau, kafka, orson welles, romy schneider

perkins-the- trial- welles

Francois Truffaut scrisse che Il processo era uno dei film meno riusciti di Orson Welles, perché basato su una contraddizione di fondo: l’incompatibilità tra il carattere egocentrico del regista (Welles amava definirsi come uno di quei teatranti che, sul palcoscenico, possono interpretare solo il ruolo del Re) e quello minimalista, quasi mediocre,di Kafka.

Personalmente credo che, forse per l’unica volta nella sua vita, Truffaut abbia preso un granchio. E non per l’analisi assolutamente perfetta che fa delle personalità, così diverse tra loro, dello scrittore austriaco  e del regista americano, ma perché Il processo non è affatto uno dei film minori di quest’ultimo, bensì  un assoluto capolavoro.

L’uso costante di grandangoli che esaltano la profondità di campo come non avveniva nemmeno in Quarto Potere (e che si possono apprezzare sin dal primo, splendido piano sequenza nell’appartamento di K) rendono perfettamente l’atmosfera del libro di Kafka, caratterizzato da un costante senso di oppressione e di impotenza dell’individuo di fronte ai meccanismi contorti della società e della burocrazia. I vagabondaggi di K (un Anthony Perkins da molti criticato per la sua interpretazione poco espressiva, ma che anzi proprio per questo è perfetto per il ruolo di uomo comune schiacciato dai sensi di colpa, insomma di alter-ego dell’autore), hanno lo scopo di risolvere una situazione che, già in partenza, è senza via d’uscita: la tentazione è di per sé una colpa, e per questo tutti noi, in quanto esseri umani, siamo colpevoli. E’ lo stesso K ad esprimere questo pensiero all’inizio del film, pensiero confermato poi lungo tutto l’arco della storia: processato per una colpa misteriosa, per colpa sua viene cacciata di casa la donna di cui è innamorato, per colpa sua vengono fatti frustare a sangue i poliziotti che lo avevano arrestato, per colpa sua la sua famiglia si vergogna di lui.

Attorno a K si muovono personaggi tipicamente “kafkiani” (il gigantesco avvocato, interpretato dallo stesso Welles, le donne che ruotano intorno a K tentandolo in continuazione, il pittore che vive in una gabbia di legno, continuamente circondata da bambini urlanti), perfettamente collocati all’interno di una pellicola la cui fotografia, esaltata da un bellissimo bianco e nero, e le cui ambientazioni (claustrofobiche e allucinanti) danno al tutto un’atmosfera folle e surreale. Atmosfera esaltata poi da un finale apocalittico (genialmente ideato da Welles), e da un prologo fiabesco che dà a tutta l’opera la dimensione di un sogno.

O, meglio ancora, di un incubo.

 

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