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Il piacere degli occhi

~ La vita non è una tragedia in primo piano, ma una commedia in campo lungo

Il piacere degli occhi

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Peter Bogdanovich: rigore formale, nostalgia e delicatezza.

30 venerdì Mag 2014

Posted by MonsieurVerdoux in Il cinema dei registi

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boris karloff, cher, christopher reeve, cinema horror, eric stoltz, hammer, jeff bridges, laura dern, michael caine, peter bogdanovich

bogdanovich-doc_optQuello di Peter Bogdanovich è un cinema che ha sempre fatto del formalismo e del rigore la sua pietra angolare; e la sua opera prima, Bersagli (1968), già mostrava questa caratteristica.

Il film racconta due vicende apparentemente slegate (l’addio al grande schermo di una star del cinema dell’orrore e la follia omicida di un ragazzo che comincia a sparare da un tetto su ignari passanti): girato in maniera rigorosissima, con un senso dello spazio quasi geometrico (Bogdanovich sa sempre dove mettere la macchina da presa, e dal punto di vista formale la messa in scena è impeccabile) e con una commistione tra realtà e finzione cinematografica che dona al film un’atmosfera quasi surreale (bellissimi sia l’incipit, in pratica un cortometraggio horror in stile Hammer, che finale, in cui le scene del film proiettato sul grande schermo si alternano a quelle del massacro che intanto sta avvenendo nel drive-in), Bersagli è un film durissimo. Cosa spinge il giovane protagonista a diventare un serial killer spietato? La risposta è abbastanza semplice: la normalità, la vita piatta che ogni giorno si ripete secondo regole precostituite, ma dietro la quale si nasconde un mondo crudele (non è un caso che il giovane protagonista sia un reduce della guerra del Vietnam). Bersagli è però anche il testamento spirituale di Boris Karloff (che qui, di fatto, interpreta sé stesso): lui che aveva sempre spaventato il pubblico con i suoi mostri ed i suoi personaggi inquietanti, nel finale si scontra con il giovane assassino (il “mostro” di oggi) e, dopo averlo sconfitto, pone (al mondo e allo spettatore) la seguente domanda: “Era questo che vi faceva così tanta paura?” . Perché la “paura” generata dal grande schermo non è niente rispetto a quella di un mondo che non propone vie d’uscita. Sembrano senza troppe vie d’uscita anche i due giovani protagonisti de L’ultimo spettacolo (1971), considerato il capolavoro di Bogdanovich (ma che a mio parere non raggiunge le vette di Bersagli). Girato in un bianco e nero pulitissimo e con uno stile ed un’atmosfera retrò che rimandano a un’idea di cinema che non c’è più (quella della nostalgia dell’epoca d’oro del cinema americano è una costante dei film di Bogdanovich), L’ultimo spettacolo è una delle pellicole che meglio descrivono la perdita dell’innocenza di una generazione, quella dei ventenni americani degli anni ’50, che di lì a poco si contrerà col dramma della guerra di Corea.

Anche ne L’ultimo spettacolo il rigore formale di Bogdanovich è evidente: la sua regia è quasi teatrale, e non è un caso che un altro dei suoi film, Rumori fuori scena (1992), sia la storia di una compagnia e dei loro disastrosi tentativi di mettere in scena una commedia degli equivoci. Un film forse con qualche debolezza e ingenuità nella sceneggiatura, ma dal grande ritmo, che mostra proprio come il regista sia abile a muovere la cinepresa negli spazi “geometrici” e in qualche modo limitati del palcoscenico.

Bogdanovich mostra poi il suo lato più dolce nel toccante Dietro la maschera (1985), storia di un ragazzino dal volto devastato da una rarissima malattia, la leontiasi: grazie alla sua intelligenza, alla sua simpatia, e ad una madre coraggiosa quanto anticonformista (una splendida Cher, mentre il bambino è interpretato da un giovanissimo Eric Stolz) riuscirà persino a trovare l’amore; ma il mondo resta un posto crudele, dove i sogni vengono irrimediabilmente spezzati: ed è bellissima la scena in cui Rocky “svuota” la mappa dell’Europa che tanto aveva desiderato visitare, prima di addormentarsi per l’ultima volta.

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I tre volti della paura, Terrore nello spazio, Operazione paura: Mario Bava e la reinvenzione del cinema

15 giovedì Nov 2012

Posted by MonsieurVerdoux in Cult

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boris karloff, cinema, cyberpunk, gotico, horror, mario bava, metacinema

Diventa difficile elencare i tanti gioielli di una filmografia ricca e affascinante come quella di Mario Bava. Ho già parlato qualche tempo fa del suo essere stato un precursore, o forse addirittura l’inventore, di alcuni generi tipicamente nostrani (il “giallo all’italiana”  con La ragazza che sapeva troppo, e il thriller di stampo più classico con Sei donne per l’assassino) ma anche di sottogeneri che avranno fortuna oltreoceano (lo slasher con Reazione a catena).

Eppure, Bava ha sempre affermato che di tutti i suoi film ne avrebbe salvato solo uno: I tre volti della paura (1963). Barocca, ricca di una sperimentazione visiva/fotografica che si può solo sognare negli horror realizzati oggi, questa pellicola è costituita da tre piccoli capolavori che spaziano dal thriller all’horror puro al film di paranoia. L’uso delle musiche, di un’atmosfera che gioca non solo con le luci e con colori accesi ma anche con i silenzi (l’atmosfera morbosamente inquietante del primo episodio, dove sembra sempre che stia per accadere qualcosa) e con gli effetti sonori (il rumore della goccia che, presagio di un possibile evento funesto, perseguita la protagonista dell’episodio La goccia) fanno de I tre volti della paura un film innovativo, coraggioso; persino l’episodio “horror” nel più puro senso del termine, è arricchito da scenografie al limite del fantasy, oltre che dalla presenza magnetica di Boris Karloff. Proprio Karloff, nel finale del film, è protagonista di una scena che mostra ancora una volta come Bava, all’epoca,  fosse già avanti di decenni, regalandoci uno dei primi momenti di meta-cinema che la storia della celluloide ricordi.

La grande abilità di questo maestro insuperato è stata quello di riuscire a creare sempre qualcosa di nuovo, di reinventarsi, con i pochi mezzi che aveva a disposizione. Si pensi a Terrore nello spazio (1965): utilizzando qualche pietra di cartapesta, dosi abbondanti di nebbia finta e un uso delle luci quasi da pop-art, Bava realizza un film forse privo di una storia convincente (come molte delle sue opere) ma in cui sono l’atmosfera ipnotica e l’impatto visivo della pellicola i suoi punti centrali; in questo film tra l’altro per la prima volta i personaggi vengono posti davanti a un nemico invisibile (alieni che si impossessano delle loro menti) che si insinua tra loro e finisce col farli uccidere a vicenda: il nemico non proviene più dall’esterno, ma è dentro di noi, in mezzo a noi, è insomma lo stesso essere umano il nemico; e tanti film che verranno (La cosa, Alien) affronteranno questi temi anni dopo.

Ma si pensi anche ad Operazione paura (1966), uno dei film di Bava più rivalutati negli ultimi anni: la classica vicenda di fantasmi ambientata in uno sperduto paesino dove si verificano dei misteriosi suicidi, è l’occasione per dare vita a una pellicola tutta incentrata sull’atmosfera, sul vedo/non vedo, e in cui Bava ha l’occasione di realizzare delle sequenze più belle della sua filmografia: un uomo che continua a rincorrere il suo doppio in stanze tutte uguali, metafora forse, di come il cinema sia un’arte magica capace di re-inventarsi da sola.

Non solo mostri

08 mercoledì Feb 2012

Posted by MonsieurVerdoux in Black and White

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bela lugosi, boris karloff, cinema, horror, james whale, storia cinema mostri, tod browning

Vi sono una serie di film non propriamente ascrivibili al cinema “dei mostri”, ma che hanno comunque contribuito all’evoluzione di questo straordinario “genere”.

Il primo di essi è indubbiamente Il dottor Miracolo (1932), di Robert Florey. Il film è incentrato su una tema ricorrente nel cinema dell’orrore: la bestia che si innamora di un’innocente fanciulla: in questo caso la creatura in questione è il gorilla umanoide cui Il dottor Miracolo del titolo (un diabolico Bela Lugosi) prova a donare una compagna. Il film, sebbene non abbia una sceneggiatura solidissima (l’idea stessa che semplicemente mischiando il sangue di una scimmia e una donna si possa  ottenere una sorta di ibrido umanoide fa a dir poco ridere), resta comunque un tipico d’esempio di horror d’atmosfera: a parte il gorilla protagonista (che nel finale si lancia in una fuga disperata con la sua amata sui tetti di Parigi, anticipando di diversi anni l’epilogo di King Kong) non vi sono creature mostruose o situazioni fantastiche, ma solo un mefistofelico villain cui comunque l’interpretazione di Lugosi riesce a donare i tratti dell’eroe tragico e crudele suo malgrado.

The Old Dark House (1933) è invece uno dei film “minori” di James Whale (sorretto tra l’altro da un cast d’eccezione, su tutti Charles Laughton e il solito Boris Karloff). La pellicola ha un ritmo invidiabile per l’epoca, e introduce una serie di temi (su tutti: l’abitazione abbandonata in cui, durante un temporale, trova riparo un gruppo di turisti che finiscono così tra le grinfie di una famiglia di folli assassini) che verranno riproposti spessissimo in futuro, specialmente in quegli odiosi slasher che tanto sembrano andare di moda oggi (si pensi alle trame simili di Non aprite quella porta, La casa dei mille corpi, e via dicendo). Peccato solo che Karloff interpreti un personaggio che scimmiotta troppo il Mostro di Frankenstein impersonato solo due anni prima, sempre sotto la regia di Whale.

Lo stesso Karloff  e Bela Lugosi si incontrano poi per la prima volta sul se di The Black Cat (1934) di Edgar Ulmer, film che, a dispetto del titolo, non ha niente a che fare con l’omonimo racconto di Poe, ma che ci regala un duello d’altri tempi fra due mostri sacri del cinema dell’orrore. Imperniato su di una trama tremendamente macabra per l’epoca (in cui non mancano diversi riferimenti a pratiche al limite della necrofilia) e completamente ambientata all’interno di una bizzarra quanto misteriosa casa, questo film resta un piccolo gioiellino che ci permette di vedere all’opera due leggende come Karloff e Lugosi: ne esce meglio il primo, più poliedrico e capace di dare tagli diversi alla propria interpretazione, al contrario della sua controparte ungherese, ancora troppo legata al personaggio di Dracula.

Infine, va citato anche il delizioso La bambola del diavolo (1936), penultimo film di Tod Browning: non tanto per la storia, una banale vicenda di vendetta (messa in atto da un avvocato ingiustamente mandato in galera dai suoi soci) quanto per gli straordinari effetti speciali, davvero strabilianti per l’epoca: attori e animali vengono rimpiccioliti sino a divenire delle dimensioni di piccoli pupazzetti, il tutto con semplici giochi di luce e sovraimpressioni; ne esce fuori un piccolo film colpevolemente dimenticato dalla critica, ma che ha segnato una svolta importante nel campo degli effetti speciali. Potere e magia del cinema “dei mostri”

La Universal e i suoi mostri

25 mercoledì Gen 2012

Posted by MonsieurVerdoux in Black and White

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bela lugosi, boris karloff, cinema, claude rains, horror, james whale, lon chaney jr., storia cinema mostri

La Universal è sicuramente la casa di produzione cinematografiche cui è maggiormente legato il cinema “dei mostri”: Dracula e Frankenstein furono solo le prime di una serie quasi interminabile di creature che, negli anni ’30 e ’40, popolarono gli incubi di milioni di spettatori.

Uno dei personaggi-simbolo del cinema mostruoso è sempre stato il Licantropo, essere umano su cui grava una terribile maledizione, che lo costringe a trasformarsi in una belva assassina tutte le notti di luna piena, e ad uccidere le persone a lui più care. Si tratta quindi di una creatura tutto sommato tragica, ed è in questo senso che questa figura è stata portata al cinema, sia ne Il segreto del Tibet, del 1935 (primo lungometraggio della Universal su di un lupo mannaro) ma soprattutto ne L’uomo lupo (1941), con Lon Chaney Jr. nel ruolo del licantropo/ Larry Talbot. Il film di George Waggner resta senza alcun dubbio uno dei più celebri ed importanti tra quelli prodotti dalla Universal, e il suo punto di forza sono un’ambientazione gotica, quasi fiabesca, e un’atmosfera pervasa da magia, maledizioni, personaggi al limite del surreale (maghi, indovini, zingari). Il cammeo di Bela Lugosi passa quasi inosservato, poiché a farla da padrone è Lon Chaney Jr., perfetto (anche se oggi la sua interpretazione risulta un pò troppo gigionesca) nel ruolo di mostro suo malgrado. Il celebre trucco di Jack Pierce è indubbiamente migliore di quello utilizzato ne Il segreto del Tibet (film dall’ambientazione meno affascinante, ma simile a L’uomo lupo nei toni) , ed è a suo modo entrato nella storia. Menzione d’onore poi per Claude Rains, splendido nel ruolo del padre di Talbot, che nella sequenza finale si ritrova a commettere un terribile omicidio che enfatizza ancor di più i toni tragici della storia narrata dal film.

Anche la creatura protagonista de La mummia (1932) di Karl Freund, è, più che un vero e proprio mostro, un essere maledetto e tormentato. Innamorato di una donna per la quale ha sopportato oblio e dolore per millenni, il sacerdote Imothep (un grandissimo Boris Karloff) risorge dalla tomba per riconquistare il suo grande amore (e poco importa se ciò costa la vita di parecchie persone innocenti). Lontano dallo stereotipo della mummia tutta bende e fasciature (che invece caratterizzà la serie di film successivi con Lon Chaney Jr., nel ruolo di Kharis), il personaggio di Imothep mantiene ancora oggi un grande fascino, e, anche se la trama del film a tratti appare un po’ datata, alcuni momenti sono davvero notevoli: basterebbe solo il prologo in Egitto, con la scena del risveglio della Mummia, a fare di questo il migliore horror della Universal del post-Frankenstein.

Pellicola completamente diversa dalle precedenti, forse per il tono volutamente scherzoso e comico datole dal regista James Whale, è L’uomo invisibile (1933): Claude Rains interpreta lo scienziato che scopre la formula dell’invisibilità, ma non vi sono mostri crudeli da combattere né demoni da sconfiggere; solo una serie di gag dietro l’altra, che rendono il film un delizioso divertissement piuttosto che un vero e proprio film dell’orrore, il cui protagonista è, oltre che un folle assassino (non esita a strangolare poliziotti, uccidere vecchi amici o far deragliare treni) anche un allegro bonaccione, che si diverte a togliere i cappelli ai passanti, o a gettare l’inchiostro in faccia a poliziotti antipatici. Che Whale, grandissimo regista troppe volte colpevolmente dimenticato, abbia forse con questo suo film voluto prendere in giro quel cinema “dei mostri” che egli stesso aveva contribuito a creare?

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