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Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, gli spettatori che negli anni ’30 tanto avevano apprezzato i mostri della Universal, si ritrovarono di fronte a una realtà (fatta di morte, mutilazioni, genocidi) ben più “mostruosa” della finzione cinematografica cui erano abituati. Vi fu quindi una sorta di “rigetto” nei confronti dell’elemento “orrorifico” puro, e fu questo a decretare negli anni ’40 il grande successo dei film prodotti da Val Lewton e diretti da Jacques Tourneur, pellicole d’atmosfera che lasciavano solo intravedere, sospettare, e quindi mai mostrare chiaramente, la presenza del Male. Opere come Ho camminato con uno zombie e soprattutto Il bacio della pantera mettevano in una nuova luce il concetto di “mostro” (nel primo caso un morto vivente, nel secondo una donna che si tramutava in pantera ogni volta che provava attrazione fisica per un uomo), prediligendo a trucchi e effetti horror di vario genere la suspence e le atmosfere morbose ricreate, con grande abilità, da Tourneur.
Ma il cinema “mostruoso” era destinato, anche negli anni’50, ad evolversi ancora seguendo le mutazioni storiche e sociali dell’epoca: la guerra fredda, la paura del rosso e del comunista, e più in generale di una minaccia nucleare pronta a manifestarsi da un momento all’altro, diedero vita a una serie di pellicole al limite tra l’horror e la fantascienza che costituirono la nuova frontiera del cinema dei mostri.
La cosa da un altro mondo, di Howard Hawks (1951) ne fu uno dei primi esempi: divenuto subito un piccolo cult nel suo genere, il film narra la storia di un gruppo di scienziati e di militari che, di base al Polo Nord, scoprono i resti di una astronave con all’interno, imprigionata in un blocco di ghiaccio, una creatura aliena. Nonostante “senta” abbastanza i suoi anni (in particolare nella caratterizzazione fisica del mostro, oltre che nelle modalità un pò goffe con cui i protagonisti cercano di neutralizzarlo), la pellicola risulta comunque godibile, grazie soprattutto al lavoro di un regista come Hawks, capace di valorizzare al massimo i pochi ambienti in cui si svolge la storia, e di donare al film un ritmo notevole, grazie anche a un uso molto serrato dei dialoghi.
Altro cult al limite tra horror e fantascienza fu Tarantola di Jack Arnold (1955). Anche questa pellicola può risultare oggi un pò datata, in particolare nel trucco e nel make-up delle mutazioni dei personaggi (causate da un virus imprudentemente liberato nell’atmosfera da un ambizioso scienziato di una cittadina dell’Arziona); al contrario, gli effetti del ragno gigante sono, considerato l’anno di realizzazione del film, abbastanza buoni. La pellicola è arricchita da trovate ingegnose (i conigli giganti che popolano il laboratorio dello scienziato, ad esempio), ed è da segnalare il cammeo di un giovanissimo Clint Eastwood, che guida uno degli elicotteri nell’ottima scena del bombardamento finale.
Ma il vero capolavoro della fanta-paranoia è sicuramente L’invasione degli ultracorpi (1956) di Don Siegel. Metafora delle paure del “rosso” e del comunismo che caratterizzavano gli anni del maccartismo (anche se il regista ha sempre negato questo significato “sociale” della sua pellicola), è un film tutto giocato sugli elementi della suspence e della tensione: senza mostrare nulla, Siegel ricrea un’atmosfera da incubo, in cui nessuno si fida di nessuno, e in cui anche lo spettatore rischia di rimanere invischiato. Una tensione che perdura per tutto il film, fino al bellissimo finale, cui fu aggiunto un epilogo consolatorio probabilmente non voluto da Siegel (che avrebbe preferito una conclusione più pessimistica), che però dovette sottostare al volere della produzione. Eppure, anche così, L’invasione degli ultracorpi resta uno dei film migliori della sua epoca.