Il cinema australiano ha saputo regalarci negli ultimi anni delle pellicole molto interessanti, in particolare nel campo dei generi dell’horror e del post-apocalittico. Del resto, il tipico orizzone australiano (fatto di deserti, di natura desolata e selvaggia) sembra fatto apposta per mostrare le devastanti conseguenze di una guerra atomica (non è un caso che uno dei capostipiti del genere, Mad Max, sia opera di un regista autraliano) o per far sparire nel nulla le malcapitate vittime di un serial killer.
Quest’ultimo è il caso di Wolf Creek (2005), piccolo cult horror ispirato alle reali gesta di Ivan Milat, serial killer che negli anni’90 seminava il terrore in Australia assassinando i turisti che visitavano, zaino in spalla, la terra dei canguri. Il primo merito dell’ottimo film di Greg McLean è sicuramente quello di aver creato una vera e propria icona dell’horror moderno (il folle fascista Mick Taylor, splendidamente incarnato da John Jarrat, è divenuto ormai una figura imprescindibile per gli amanti del genere, quasi ai livelli di Michael Myers o di Freddy Krueger), ma non è certamente l’unico: Wolf Creek si fa apprezzare soprattutto perchè sovverte completamente le regole del genere (la “protagonista” del film viene ammazzata a metá film, e il classico epilogo da slasher non solo è assente, ma viene completamente ribaltato) e perchè McLean usa splendidamente gli spazi sconfinati delle lande australiane per rappresentare l’impossibilità di fuggire delle vittime di Taylor. Ottimo, anzi forse addirittura migliore, il sequel del 2013: Wolf Creek 2 è ancora più violento e splatter del precedente episodio, ed è ricco di momenti sconvolgenti e spiazzanti (su tutti l’incipit pazzesco in cui Taylor fa fuori due poliziotti che si sono permessi di fargli una multa), alcuni addirittura surreali (l’attacco di Taylor alla casa dei due vecchi che hanno soccorso la vittima di turno). Insostenibile (nel senso “buono” del termine) la mezz’ora finale, in cui Taylor sottopone la sua vittima ad una serie di quiz sulla storia dell’Australia e e in cui, ad ogni risposta sbagliata, gli trancia un dito. Tutto questo fa di Wolf Creek 2 un piccolo gioiello del genere, ovviamente passato inosservato nelle nostre sale.
Ma veniamo ora al post-apocalittico. Sono due le pellicole che voglio citare in questa mia personale classifica dei migliori film australiani che ho visto negli ultimi tempi. La prima è The Rover, film del 2013 diretto da David Michod. Michod era già salito agli onori delle cronache grazie al suo lavoro precedente, Animal Kingdom, una crime story a metà strada tra i gangster-movie di Scorsese e i noir di Johnnie To: un film freddo, duro, essenziale nel mostrare la violenza (la morte molto spesso viene ridotta ad un semplice colpo di pistola, anticipato e seguito quasi sempre da interminabili silenzi) e, più in generale, in tutta la messa in scena.
In The Rover, 10 anni dopo una non meglio precisata apocalissi nucleare, il personaggio senza nome interpretato da Guy Pearce si vede rubare davanti agli occhi la sua auto da un gruppo di criminali: con l’aiuto di un loro ex-complice creduto morto, comincerà un viaggio attraverso i deserti australiani, in mezzo a morte, sofferenza, dolore, per recuperare il suo mezzo. In The Rover tornano i temi già presenti in Animal Kingdom: l’importanza dei legami di sangue, l’assenza totale di qualsiasi riferimento morale in un mondo alla deriva (metaforicamente rappresentato da un’Australia distrutta dall’apocalissi nucleare), in cui a sopravvivere solo i legami di sangue (la famiglia era un tema centrale anche in Animal Kingdom) o quelli che non possono nascondere meschinitá (come il rapporto di un uomo con il proprio cane, fedele fino alla fine al proprio padrone). The Rover è un film che conferma l’abilità di un regista, Michod, di cui sentiremo parlare in futuro: un cineasta che ha una visione personale del mondo e dei rapporti umani, che riesce a trasmetterla tramite una messa in scena che può sembrare fredda e distaccata, ma che dá vita a pellicole intense ed emozionanti.
Concludo il post citando un altro magnifico esempio di cinema post-apocalittico made in Australia: These Final Hours (2013) di Zak Hilditch, è un’opera intensa, straziante e commovente come se ne sono viste poche; un film che riflette sulla morte e sulla vita, viaggio iniziatico di un giovane e di una bambina attraverso un mondo ormai rassegnatosi ad essere distrutto da un meteorite in arrivo sulla Terra e che si è per questo abbandonato al degrado e alla follia. These Final Hours è un film girato splendidamente, interpretato con grande pathos da tutto il cast, una pellicola capace di far piangere e di regalare momenti di incredibile intensitá (l’addio del protagonista alla bambina, la delirante festa in piscina, il poetico finale), un piccolo capolavoro che ci ricorda che, anche nei momenti più bui della nostra esistenza, è all’amore che bisogna guardare per trovare la forza di andare avanti.